Racconti

Pantofole azzurre

Pantofole azzurre

27/03/2008


 

Faceva freddo quella sera dell’11 febbraio del 1955. Stanco del troppo lavoro sulla mia scrivania, decisi di fare una passeggiata in riva al mare, si erano fatte ormai le 8 di sera e, stranamente, non avevo neppure cenato. Era ormai diventata quasi una “sana” abitudine recarmi in spiaggia, col buio, quando volevo staccare per un po’ dai miei articoli; e poi, il profumo di salsedine e il suadente rumore delle onde, mi ridavano vitalità ed energia. Circa 100 mt separano la mia abitazione dal lungomare e quella sera nel percorrere quel tratto di strada, incontrai per la via Franco Spera, un mio compagno d’università che ogni tanto amava passeggiar in riva al mare anche d’inverno. Franco aveva con sé delle fave tostate che si portava dietro per ingannare il buio –così diceva lui- io, casualmente avevo messo in tasca del pane fatto in casa indurito, a mo’ di biscotto. Era sabato quella sera. Con Franco ci dialogavo volentieri, avevamo in fondo in fondo gli stessi ideali di riferimento. Lui era giudice di Cassazione presso il tribunale di Palermo, ma nei fine settimana rientrava a casa dalla mamma, ormai anziana, che si trovava in un paesino della costa dei Gelsomini, in provincia di Reggio Calabria. Quando ci si incontrava, Franco, fidandosi in modo assoluto della mia discrezione, si lasciava andare al racconto delle sue ultime vicissitudini personali che erano spesse volte un tutt’uno con quelle professionali. Quell’11 febbraio mi raccontò una storia che trovai incredibile. Si era innamorato della donna di un noto boss mafioso, latitante da più di quindici anni. La tresca pare andasse avanti da più di un anno, ma prima di quella sera non me ne aveva parlato, perché tutto era filato liscio. Ma da un mese a questa parte –disse- la segreta storia d’amore tra lui e Giuliana (la donna del boss), con molta probabilità era stata scoperta dagli uomini del potente boss, Pasquale Vitetta. Franco, tra le altre cose, aveva per le mani il processo della potente cosca capeggiata dal Vitetta. Uno dei processati, Armando Cruna, pare si fosse pentito e tra le sue confessioni, disse che, in realtà la tresca tra Giuliana e il giudice Franco Piso, era stata tutta orchestrata da Vitetta, allo scopo di corrompere a favore dei propri affiliati l’esito del processo. Franco era dilaniato dal dubbio se in realtà Giuliana avesse finto veramente in tutto quell’anno, insomma non gli sembrava possibile che fosse stata tutta una montatura. Naturalmente, mi disse Franco, “di tutta sta storia Giuliana non sa nulla, perché queste indiscrezioni mi sono state raccontate da Armando Cruna, durante l’interrogatorio”. L’intrigo mi sembrava bello grosso e soprattutto molto pericoloso per la vita stessa di Franco, ma lui voleva scoprire a tutti i costi se Giuliana stava fingendo o lo amava veramente. Mentre si parlava e si erano fatte già le 9:30 di sera, il cellulare di Franco squilla. Lui risponde e nel suo viso vedo disegnarsi progressivamente una smorfia d’incredulità mista a gioia che mi incuriosisce oltremodo. Rimane più di mezzora al cellulare e quando lo spegne, anticipando la mia domanda, mi dice: “mo’ ti cuntu tuttu. Cosi i pacci, tuttu a mia mi capita. Già era complicata sta storia, modu vojiu u viju comu ‘ndaiju u nesciu fora i stu bucu nigru. Ma è possibili ca u cani muzzica sempi u sciancatu?”. La storia si era veramente complicata e di questo mi resi conto non appena finì di raccontarmi. Pare che Giuliana, dal momento che nelle ultime settimane stava poco bene, era andata a farsi degli esami e tra i tanti aveva inserito anche quelli per l’accertamento di un eventuale gravidanza. Ebbene, la mattina di quel sabato 11 febbraio, era andata a ritirare i risultati e l’esito era chiaro: era incinta e di Franco, pare. Ma se era tutta un farsa, disse Franco, perché farsi mettere incinta? Io, per sdrammatizzare gli dissi: “per far sembrare tutto molto credibile!”. Subito dopo, però, lo invitai a una seria riflessione e all’attuazione di una strategia, per dipanare quell’ossessivo dubbio, oltre a tutto il resto che ne sarebbe conseguito. Non feci in tempo a finire di pronunziar quelle parole che, improvvisamente, una luce ci abbagliò, scese un commando che sfoderò fucili, pistole e mitra…di me e di Franco restarono solo due corpi senza vita e accanto un paio di pantofole azzurre…
 

Giovanni Certomà

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