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Ai confini dell’impossibile

27/03/2008



“Sono Massimo, faccio parte dell’unità salvataggio di emergenza; la nostra postazione è proprio ai piedi del monte Bianco.
Il mio compito è di salvare le persone che si trovano in difficoltà in alta montagna”.
Il mese scorso al centralino arriva un s.o.s. lanciato da un piccolo Cesna che volava sopra l’Everest, pilotato da due persone; avevano avuto un incidente e si trovavano a settecento metri dalla vetta del grande monte senza cibo, acqua e con l’aereo impossibilitato a riprendere il volo, ma per fortuna loro erano rimasti vivi.
Subito ci preparammo per andarli a cercare. Il tempo era pessimo, imperversava una bufera di neve e vento forte, soprattutto in alta quota; gli elicotteri non potevano volare, quindi decidemmo di prendere le jeep, almeno per il primo tratto.
Arrivati a soli 1000 m la strada era interrotta per una frana e noi fummo costretti a continuare a piedi. Ordinai di prendere gli zaini con il materiale di soccorso e ripartimmo.
Era ormai buio e ci fermammo al rifugio degli alpini. L’indomani, all’alba, saremmo ripartiti, ma dovevamo tenere un ritmo più veloce se volevamo arrivare in tempo prima che i due piloti morissero assiderati.
La mia spedizione era composta da cinque membri: Jonh, Marco, Antonio, Michele e naturalmente io, responsabile della spedizione.
Il mattino dopo, prima dell’alba, svegliai tutti e ripartimmo; a mezzogiorno eravamo a quota 2200 m, da lì iniziava la vera scalata.
Io ero il capo cordata, Michele l’ultimo.
Il tempo era peggiorato, non si vedeva quasi nulla, il vento era talmente forte che il suo rumore copriva anche le nostre voci, per cui anche comunicare fra di noi diventava un’impresa.
Consultai la bussola, eravamo in prossimità del campo base, volevo riferirlo a Michele, lo chiamai più volte, ma nulla, gli altri mi riferirono che forse era successo qualcosa, avevano sentito le corde tirare e non lo avevano più visto.
Tornai indietro per assicurarmi che tutto fosse a posto, ma purtroppo mi accorsi che il mio compagno era caduto 50 metri più sotto, a penzoloni nel vuoto, una delle due corde aveva ceduto e lui non aveva più trovato un appiglio.
Per fortuna la seconda corda d’emergenza che io gli avevo fatto mettere aveva tenuto, così riuscimmo a tirarlo su.
Tanto spavento, ma per fortuna non si era fatto nulla; riuscimmo a ripartire.
Arrivammo al campo base …… il tempo passava e la mia paura era quella che i due piloti non riuscissero a cavarsela, decisi nonostante il parere contrario dei miei compagni che volevano tornare indietro, di continuare anche di notte.
Riuscii a convincerli, per fortuna negli zaini avevamo portato anche delle torce e il tempo stava migliorando, non nevicava più e il vento si era calmato.
All’alba eravamo già a più di 4000 metri di quota, mancava poco, dovevamo superare solo l’ultima parete di ghiaccio, le nostre mani e i nostri piedi erano quasi congelati.
Superammo l’ultimo tratto e finalmente trovammo l’aereo con i due piloti.
Erano passati quattro giorni dall’S.O.S. i due piloti grazie al cielo, erano ancora vivi, anche se feriti e stremati dal freddo e dalla fame.
Per ripararsi, fortunatamente, non solo erano rimasti all’interno dell’abitacolo, ma avevano utilizzato l’equipaggiamento di fortuna che era nell’aereo: alcune coperte e qualche scatoletta di carne.
Quello che però li aveva potuti salvare erano state la radio dell’aereo con cui avevano lanciato l’s.o.s.( che non si era rotta nonostante l’impatto) e la caparbietà e professionalità dei loro soccorritori, che nonostante il brutto tempo erano andati avanti.
Mentre davamo loro le prime cure, chiamai la base perché ci inviasse un elicottero, il tempo era migliorato.
Diedi l’ordine di preparare i due piloti e non appena arrivò l’elicottero, li adagiammo sulle barelle che furono calate dal velivolo e partirono verso il più vicino ospedale dove i medici li stavano già aspettando.
Un altro elicottero venne poi a prelevare noi, era
Massimo Costa - 1^ N

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