Racconti

Vocazione sacerdotale

Vocazione sacerdotale

27/03/2008



Da qualche mese si era conclusa la tragica seconda guerra mondiale, e a Rocca Cannuccia, paesino posto nel cuore dell’Aspromonte, tutto sembrava inanimato e privo di vita. Ma da queste parti, si sa, la gente non si arrende facilmente e non è disposta a gettar la spugna senza prima dare tutto sé stessa, per provare a risorgere. Gli abitanti di Rocca Cannuccia erano rimasti poco più di trecento cinquanta e la presenza dei capi famiglia si era ridotta al lumicino, dal momento che, la gran parte era stata arruolata a combattere quell’assurda, quanto inutile guerra. La gente soffriva quotidianamente la fame e si cibava solo di ciò che riusciva a produrre: pane fatto in casa, ortaggi coltivati nei propri poderi. In quelle famiglie in cui il padre non c’era più, toccò alla donna e ai figli maschi più grandi portar avanti la baracca. Nella famiglia Scorza fu Antonio, 12 anni, a darsi subito da fare e aiutare mamma Mariuccia a tirar su gli altri fratelli: Domencio, 8 anni, Caterina, 6 anni e Santina, 3 anni. Antonio non rinunciò ad andare a scuola è così fu costretto a sacrificarsi oltremodo, per adempiere a quello che era diventato, per lui, un dovere materiale e morale primario. Di mattina faceva a piedi ben 10 km andata e ritorno per recarsi a scuola e di pomeriggio, subito dopo aver mangiato qualcosa, andava a lavorare presso un fabbro prima e subito dopo si recava presso un vecchio panificio di Roccacello, paesino che distava da Rocca Cannuccia 1km. A casa rientrava intorno alle 11 di sera e a quell’ora aveva ancora la forza per farsi i compiti di scuola, dopo aver mangiato quel po’ di cibo che la mamma riusciva a fargli trovare sul tavolo. Nelle giornate di pieno inverno aspromontano, quando nei mesi di gennaio e febbraio, nevicava quasi quotidianamente, Antonio rientrava la sera veramente stremato dalla fatica e morto dal freddo. A Rocca Cannuccia era sopravvissuta ai bombardamenti la piccola e vecchia chiesa dell’ “Immacolata”, in cui continuava a dir messa don Cornelio. Antonio, educato da sua mamma, sin da piccolo, non mancava mai alla messa domenicale e quando poteva, quasi sempre, presiedeva pure la messa mattutina delle sei. Per l’anziano don Cornelio, l’aiuto come chirichetto di Antonio era diventato negli ultimi tempi necessario e fondamentale. Antonio non solo era una sorta di tutto fare per don Cornelio, ma viveva il rapporto con la spiritualità in maniera molto intensa e sentita; si accostava infatti, quasi ininterrottamente all’eucarestia e lo faceva in una maniera che lasciò stupefatto anche lo stesso don Cornelio. Certi anziani preti non hanno bisogno di “esami” particolari per capire quando esiste il seme di un’autentica vocazione, e quella, secondo don Cornelio, in Antonio c’era, ma di ciò non ne volle mai parlar ad Antonio; attendeva e lasciava che fosse il giovane Antonio, eventualmente, se avesse voluto, a parlargliene. Antonio ogni giorno che passava sentiva una strana, quanto naturale attrazione per tutto ciò che era spirituale. Questo inizialmente, un po’ lo turbò, ma poi, per capirne di più decise che ne avrebbe parlato a don Cornelio, diventato ormai per lui una sorta di Padre spirituale. Antonio amava la lingua italiana e lo parlava anche bene, però quando doveva affrontare questioni di interesse molto personale, preferiva esprimersi nel suo dialetto. Così, quando il 25 febbraio del 1950, Antonio e don Cornelio stavano rientrando a piedi dopo aver assistito spiritualmente un moribondo, d’improvviso Antonio rivolgendosi all’anziano prete disse: “a mia mi piaci u staju ‘nta jiesa, u vi servu a missa, u mi fazzu a comugnoni, u prego a tutti li uri. Chi diciti ca’ esti? ‘ndajiu carchi malatia? Sugnu strambu? È comu quando abbicinu nu pezzu i ferru a calamita. Eu cioè sugnu attirato i tuttu chjiu chi ‘ndavi a chi fari ca jiesa e cu Diu. E a cosa stramba esti ca mi sentu bonu, rilassatu, affrontu tutti i problemi ca’ vita mi presenta cu na serenità chi mi faci paura. ‘Nta notti eu mi arzu, mi ‘ndinojiu e pregu e comu quando ca mi scordu i tuttu chjiu chi mi staci intorno, mi pari ca sugnu a ‘nattra parti, luntanu da casa. Don Corneliu eu non ‘sacciu chi pensati vui, ma eu vojiu u mi fazzu previti. Chi pensati?”. E don Cornelio rispose: “fijiu segui a strata chi senti dintra lu cori toi, ca eu pregu pe tjia”.

Giovanni Certomà

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